Elisa Casseri, vincitrice del 53° Premio Riccione per il Teatro, ha raccontato quei giorni del 2015 su «Extra», inserto del Corriere Romagna. Riportiamo qui il suo testo: il racconto della vittoria di un premio, ma anche di una terra conosciuta bene ancora prima di esserci mai stata, per colpa di Secondo Casadei.
Romagnitudine
La prima volta che sono tornata a Riccione non c’ero mai stata. Era autunno e ho cambiato due treni per arrivare, scendendo in una stazione che divideva il posto in cui dormivo dal posto in cui sarei andata la sera stessa del mio arrivo, un teatro che sarebbe stato inaugurato e dedicato a Pier Vittorio Tondelli.
Mi avevano chiamato un paio di mesi prima per dirmi che ero finalista in questo premio teatrale molto importante e che l’8 novembre – era il 2015 – ci sarebbe stata la cerimonia di premiazione, alla quale ero invitata. Avevo chiamato mia sorella e i miei genitori per dirglielo e poi avevo chiamato pure i miei nonni che per vent’anni erano andati in vacanza a Rimini e parlavano sempre di quel pezzo di costa adriatica come casa loro.
«Portati la collana mia», mi avevo detto mio nonno e io gli avevo risposto: «Certo, non me la tolgo mai», che per lui era un modo di stare con me senza starci e per me era un modo di far stare le cose dove dovevano stare: la rondine sul mio collo, la nostalgia disgregata confusamente nello spazio e nel tempo.
Per colpa di Secondo Casadei, infatti, io ho iniziato ad avere nostalgia della Romagna ancora prima di sapere cosa fosse e dove fosse, quando ero piccola e ai matrimoni vedevo questi uomini col petto gonfio sopra il tavolo che muovevano un braccio alternato all’altro e queste donne che buttavano la testa un po’ all’indietro, prima di cantare tutti insieme: «Quando ti penso, vorrei tornare...». Gli sposi, gli altri invitati e mio nonno erano in pista che ballavano e io sapevo che anche di quel ballo – che poi avrei saputo chiamarsi valzer – avrei per sempre avuto un sacco di nostalgia.
Ci sono lingue che hanno delle parole per raccontare la nostalgia del futuro, la nostalgia delle cose che non abbiamo mai visto, la nostalgia per certi spazi della nostra immaginazione – saudade, fernweh, kaukokaipuu– noi no, noi ci dobbiamo attrezzare.
Quando avevo compiuto trent’anni, i miei nonni avevano fatto fondere questa collana che mio nonno portava sempre al collo e l’avevano trasformata in una collana per me, identica a una di bigiotteria che io portavo sempre al collo: forse per farmi avere una cosa vera che, in qualche modo, mi apparteneva anche prima di esistere o forse per non sbagliare con i desideri che – anche quelli – sono sempre disgregati confusamente nello spazio e nel tempo, come le patate americane che mi facevano impazzire quando ero piccola e che, a un certo punto, invece, non volevo nemmeno più vedere.
Era l’anno prima del Premio Riccione, il mio romanzo di esordio stava per uscire e io e mio nonno ballavamo ancora il valzer: lui stava già male, ma non così male; si è aggravato nei mesi successivi e poi è stato nel 2015 che ci ha lasciato. È morto il 3 ottobre, un mese prima di quella finale che mi avrebbe fatto tornare in un luogo in cui non ero mai stata.
Quello che allora non sapevo di Riccione è che, dopo quella volta, ci sarei tornata di nuovo e di nuovo ancora: con un treno diverso, diretto, che mi avrebbe fatto vedere la costa adriatica mentre arrivavo; con un minivan guidato da un autista che correva come un pazzo mentre uno scrittore che faceva parte della giuria dell’edizione successiva del premio gli chiedeva inascoltato di rallentare – non foss’altro per non mettere a rischio il giornalista, l’attrice e la regista internazionale che erano con noi; e poi con mia sorella e una sua amica, in macchina, in una di quelle avventure epiche in cui, a metà autostrada, dal cruscotto inizia a lampeggiare una scritta che dice «Abbandonare il veicolo» e tu ti metti a correre come una pazza a bordo guard rail pensando che il motore stia per esplodere e provando una profonda nostalgia per tutto quello che, mentre facevi ingegneria meccanica, hai studiato davvero troppo male.
Ma questo è stato dopo, in un passato che allora era futuro e che mi avrebbe man mano sempre più legato alla «Romagna mia» che era mia anche prima di essere mia, come la rondine che ancora oggi, nel futuro di allora che ormai, proprio adesso, è presente, sta appesa al mio collo.
L’8 novembre del 2015, subito prima che entrassi nello Spazio Tondelli di Riccione, mi ha telefonato mia nonna. Dopo la morte di mio nonno, ero stata a casa per un mese, per aiutare la mia famiglia a sistemare la burocrazia e le stanze che, dopo una malattia, si portano dietro e dentro una confusione di oggetti indispensabili che diventano immediatamente cianfrusaglie e di sentimenti che si deve trovare il modo di ricollocare.
«Lo hai vinto ‘sto premio, Lisù?».
«Eh, nonna, ancora non lo so».
«Vedrai che lo vinci».
«Vabbè, insomma... Speriamo di sì».
«No, lo vinci sicuro perché stamattina ho ritrovato la P che tuo nonno aveva sempre attaccata alla catenina sua, quella che adesso hai tu: sai che, all’inizio era una G di Giuseppe ma gli si impigliava sempre ai vestiti e allora lui ha voluto che gliela cambiassi e prendessi la P di Peppino?».
«Lo so, nonna, certo. La conosco questa storia».
«Ecco, allora, sappi pure che vinci».
Ho riso e allora ha riso anche lei e tutte e due abbiamo avuto un sacco di nostalgia. È stato in quel momento che ho pensato a tante cose tutte insieme e, tra desideri e ricordi, tra attese, errori e mezze stagioni, tra balli di coppia, libri dimenticati, violini, province, manicotti del radiatore, parole sconosciute, nomi, coincidenze e momenti non ancora vissuti, ho sentito l’odore del mare, pure se da lì non lo vedevo, pure se quel mare lì non lo avevo mai visto.
E allora mi sono detta che quel sentimento antico e intraducibile, per niente liscio ma molto melodico, quel sentimento strano e potente, per il quale ci si deve attrezzare, io lo avrei chiamato romagnitudine.
Poi sono entrata nel teatro e il Premio Riccione l’ho vinto davvero.
Mia nonna continua a dire che è tutto merito suo.